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INDICE:

I.  Il «Padre Nostro»: versione del vangelo di Matteo

II.  Il «Padre Nostro» in tutte le lingue del mondo

III. Alcuni commenti al «Padre Nostro»

IV. Esegesi teologico-biblico-pastorale

 

I. Il «Padre Nostro»: versione del vangelo di Matteo


V.

Vangelo di Matteo 6,9-15

Domande

 

9

Voi dunque pregate così:

Domande che ci portano verso Dio

9

Padre nostro che sei nei cieli,

sia santificato il tuo nome;

1^ domanda

10

venga il tuo regno;

2^ domanda

10

sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.

3^ domanda

Domande per la nostra vita

11

Dacci oggi il nostro pane quotidiano,

4^ domanda

12

e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,

5^ domanda

(condizionata)

13

e non ci indurre in tentazione, (*)

6^ domanda

13

ma liberaci dal male (maligno)

7^ domanda


Spiegazione delle condizioni per la domanda 5:

14 Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe,

il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi;

15 ma se voi non perdonerete agli uomini,

neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe

(*) Spiegazione nel mio libro

 

II. Il «Padre Nostro» in tutte le lingue del mondo

http://www.padrenostro.com/

 

III. Alcuni commenti al «Padre Nostro»

1. Catechismo della Chiesa Cattolica: «La preghiera cristiana» § 2803 – 2854

2. San Tommaso d’Aquino: «Commento al Padre Nostro»

3. Sant’Agostino: «Spiegazione del Padre Nostro nella «Lettera a Proba»

4. Cornelio Fabro: «Commento al Padre Noster»

 

IV. ESEGESI TEOLOGICO-BIBLICO-PASTORALE

 

Breve premessa esegetica

La realtà del demonio non c’è nel credo apostolico né in quello niceno costantinopolitano. La troviamo nella preghiera che Gesù stesso ha insegnato agli apostoli.

Il testo del «Padre nostro» nel Vangelo di Matteo (6,13b) riporta una precisazione che è assente nel testo di Luca[1].  La locuzione ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ (rhusai hēmas apo tou ponērou), che letteralmente significa «libera noi da il maligno», e tradotta nel testo liturgico della CEI «liberaci dal male», dovrebbe essere tradotta «liberaci dal Maligno»[2], quindi liberaci dalla persona di Satana. La traduzione non pare corretta perché si parla di un male generico, di cui in fondo non si sa l’origine. Invece il male contro cui il Signore Gesù Cristo ci aveva insegnato a combattere è una persona concreta: è Satana.

Una conferma della potenza esorcista di questa preghiera perviene dalla prassi esorcistica, in cui quando all’ossesso viene chiesto di recitare il Padre Nostro, quando arriva alle parole «e non c’indurre in tentazione ma liberaci dal male» non riesce a pronunciarle[3].

Fonte:

M. Bogetti, L'esorcista, gli ossessi e l'esorcismo nel canone 1172 del codice di diritto canonico, U.S.E.D.E.I., Torino 2011, p. 76-77


[1] P. A. Gramaglia, Il «Padre Nostro», Vol. II, Torino 2007, 1333-1338 (pubblicato in proprio)

[2] J. Carmignac, Recherches sur le «Notre Père», Letouzey & Ané, Paris 1969, 306-312

[3] S. Falvo, Il risveglio dei carismi, Edizioni Paoline, Bari 1975, 184-185

 

Padre nostro

Nei primi secoli della chiesa, colui che chiedeva di diventare cristiano riceveva due tesori nella sua memoria e nel suo cuore:

- prima del battesimo, il credo o simbolo apostolico;

- dopo il battesimo, il Padre nostro.

Scrive Ioachim Ieremias: "Era un privilegio poter dire ‘la preghiera del Signore’. Nulla dimostra meglio delle antiche formule d’introduzione conservate in tutte le liturgie d’occidente e d’oriente di quale timore e di quale rispetto fosse circondato il Padre nostro. In oriente, la liturgia detta di Crisostomo, ancora in uso oggi nelle chiese ortodosse greca e russa, fa dire al prete prima del Padre nostro: «Dègnati accordarci, Signore, di osare con gioia e senza temerarietà d’invocarti come Padre, tu che sei il Dio del cielo, e dire: Padre nostro...»".

In occidente, la messa romana si esprime in maniera analoga: "Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire: ‘Padre nostro...’". Fin dal primo secolo, il Padre nostro costituisce la preghiera personale del battezzato e della sua famiglia, al mattino, a mezzogiorno e alla sera. Al tempo di Gesù, ogni gruppo religioso si distingueva mediante una formula particolare di preghiera. Ora, quando i discepoli di Gesù cominciarono a prendere coscienza di costituire una comunità chiesero al Maestro: "Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli" (Lc 11,1). Chiesero al Maestro una preghiera che fosse il loro legame e il segno della loro appartenenza alla "famiglia" di Gesù, perché avrebbe dovuto esprimere il centro del pensiero e della preghiera di Gesù. E Gesù disse loro: "Quando pregate, dite: ‘Padre nostro’". Ci dà la sua preghiera come preghiera personale, evidentemente. Difatti Gesù premette all’insegnamento del Padre nostro questo comando: "Tu quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà" (Mt 6,6). Ma anche dietro alla mia porta non sono solo nella mia preghiera: il mio cuore contiene i miei fratelli e il mondo, e dico al plurale: "Padre nostro... dacci... rimetti a noi... non ci indurre... liberaci...".

D’altra parte, questa forma plurale, con cui Gesù ci fa pregare, sottolinea il suo desiderio di vederci spesso riuniti in comunità di preghiera. Se il Padre nostro è il simbolo di riconoscimento dei battezzati, dei figli di Dio, è evidente che dobbiamo pregarlo spesso insieme. I cristiani sono un popolo e questo popolo ha la sua preghiera. Luca ci riporta "la preghiera del Signore" in una redazione più breve di quella di Matteo. È impossibile dire con certezza quale sia la forma più antica. E poco importa. Il Signore dovette insegnare questa preghiera diverse volte con delle variazioni particolari sui temi essenziali. Comunque, dandoci il Padre nostro, Gesù non ha fissato la nostra preghiera ad una rigida formula così come suona. Ci dà una direzione, ci libera lo spirito; e poi tocca a noi.

Questa preghiera è profonda e semplice come Dio stesso, come il vangelo che essa sintetizza in poche righe. Dire il Padre nostro "in spirito e verità" (Gv 4,23-24) significa entrare nella profondità e nell’immensità dell’amore di Dio, nella conversione totale al Padre, nel movimento filiale di obbedienza spontanea e amorosa a lui. Il Padre nostro non può essere detto sinceramente che da persone che si convertono completamente all’amore per il Padre e per i fratelli. Riflettiamo ora, brevemente e in modo essenziale, sulle singole espressioni del Padre nostro.

Che sei nei cieli

Gesù ci ha insegnato: "Voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo" (Lc 23,8-9). Un solo Padre di tutti, il nostro Padre comune. Non è possibile, quindi, dire il Padre nostro al di fuori della fraternità; non è possibile trovare accoglienza in Dio quando non abbiamo nel cuore tutti gli altri suoi figli, gli uomini nostri fratelli. Leggiamo, infatti, nella prima Lettera di Giovanni: "Chi ama Dio ami anche il suo fratello" (1Gv 4,21). Chi mette da parte i propri fratelli, con essi mette da parte anche il fratello maggiore Gesù e di conseguenza non può presentarsi al Padre nel suo nome. Con Gesù e con tutti i fratelli fin dalla prima parola del Padre nostro! Il Padre nostro è comunitario: è la preghiera della grande famiglia di Dio.

Gesù ha detto: "In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,19-20). Gesù ci assicura che il Padre suo è anche Padre nostro. Ma Padre a quale titolo? Dio è il creatore del mondo e dell’uomo, la sorgente della vita. L’Antico Testamento rivela, dunque, l’amore paterno di Dio per ogni creatura e in modo particolarissimo per l’uomo che, solo fra tutte le creature, è fatto "a sua immagine e somiglianza", come solamente un padre e una madre fanno il loro figlio.
Questa paternità dell’amore creatore è già una sconvolgente rivelazione che fa brillare sulla nostra vita il sorriso di un Dio che non è il Dio dei filosofi e dei sapienti.

Ma c’è di più. "Il Figlio unigenito che è nel seno del Padre" (Gv 1,18), colui che, a ragione, può chiamare Dio "Abbà" si fece uomo e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14) perché gli uomini, suoi fratelli, potessero "‘nascere’ di nuovo" (Gv 3,3-5). "A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio" (Gv 1,12) in una vera partecipazione alla natura divina (2Pt 1,4). Quindi noi siamo realmente figli di Dio (1 Gv 3,1), e "ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: ‘Abbà, Padre!’" (Gal 4,6). Così questa parola "Abbà", questo termine riservato al Figlio unigenito nella famiglia divina passa direttamente nel nostro cuore e sulle nostre labbra perché noi tutti siamo uno in Cristo (Gal 3,26). La famiglia divina si estende a tutta l’umanità e diventa regno, il regno di Dio. L’uomo-Dio Gesù, venuto a chiamare i peccatori (Mt 9,13), ci fa entrare nel regno invitandoci a pronunciare questa parola "Abbà", a chiamare Dio "Papà amatissimo".

L’espressione "che sei nei cieli" non vuole localizzare nei cieli piuttosto che sulla terra colui che è ovunque. Nella simbolica biblica, il termine "cieli" richiama la trascendenza divina: l’uomo è piccolo, terra-terra; Dio è grande e riempie i cieli. Ma lungi dall’essere assente da quaggiù, "la sua gloria riempie tutta la terra" (Is 6,3). Ma anche se abita fra gli uomini "i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerlo" (1Re 8,27). Eppure a questo Dio osiamo dire: "Padre nostro".

Aggiungiamo che Matteo destinava il suo vangelo a una comunità cristiana venuta dal giudaismo. Ora costoro, per tradizione, non pronunciavano mai il nome di Dio, per rispetto. Tenendo conto della loro sensibilità, Matteo sostituisce il temine Dio con cielo o cieli. Così dice "regno dei cieli" per dire "regno di Dio". Nel vangelo di Matteo, pertanto, "Padre che sei nei cieli" o "Padre celeste" vuol dire "Padre che sei Dio" o "Padre Dio".

Sia santificato il tuo nome

Il nome è la persona in quanto è conosciuta, amica, la persona su cui si può affettuosamente contare perché ci ama, colui che si può chiamare per nome. Per questo il nome di Dio è la maniera biblica tradizionale per indicare rispettosamente il suo essere. Gesù, quindi, ci fa dire al Padre: "Che la tua persona sia santificata", "Che tu sia santificato". Ma è evidente che non possiamo aggiungere nulla alla santità infinita di Dio. E allora che significato può avere questa "santificazione" dell’essere di Dio? E che cosa vogliono dire i termini "santo" e "santificato"?

Con la rivelazione che Dio è amore sappiamo che la santità è dimenticare se stessi e amare veramente gli altri con i fatti. L’espressione "Sia santificato il tuo nome" può essere compresa solo così: "Che tu sia rispettato, predicato, manifestato, riconosciuto per quello che sei: l’amore stesso. Rivela la tua santità, ossia il tuo amore". In questo senso appunto Dio proclama per mezzo del profeta Ezechiele: "Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore - parola del Signore Dio quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi. Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. Vi libererò da tutte le vostre impurità: chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia" (Ez 36,23-29).

Come possiamo capire da questa lunga citazione, l’espressione "sia santificato il tuo nome" è tutt’altro che un vago, pio desiderio! Questa domanda indica due direzioni ben precise e impegna a fondo Dio e noi. Innanzitutto domandiamo che Dio stesso irradi la sua gloria, che moltiplichi nel mondo le meraviglie del suo amore e della sua misericordia, che parli più forte e più teneramente agli uomini attraverso la creazione, le persone, gli avvenimenti, attraverso i poeti, gli artisti, i santi. Che si degni di moltiplicare la grazia e la vocazione missionaria della chiesa affinché tutti gli uomini possano conoscerlo e lodarlo in eterno.

Ma questa manifestazione del Padre impegna concretamente anche tutti i suoi figli. "Mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi" ha detto il Signore. La gloria del Padre sono i figli. Così già la prima domanda del Padre nostro non ci lascia tranquilli nella nostra nicchia, ma ci fa implorare la grazia di contribuire il più possibile alla gloria di Dio. Il nostro comportamento può essere occasione di bestemmia contro Dio o di riconoscimento del suo amore, appunto perché siamo suoi figli. Proprio così si esprime il vangelo: "Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli" (Mt 5,14-16).

E l’apostolo Paolo, senza mezzi termini, ci dice: "Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passione e di libidine, come i pagani che non conoscono Dio... Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito" (1Ts 4,3-8). I nostri pensieri, quindi, le nostre parole, le nostre opere sono lo specchio della santità divina, dell’amore del Padre.

Il nostro primo compito è quello di ripulire in noi e attorno a noi l’immagine del Padre da tutte le incrostazioni che la sfigurano e dalle caricature che la deformano: il Dio carabiniere, inquisitore, torturatore, o, dal lato opposto, il Dio bonaccione, accomoda tutto, il Dio salvagente e altre puerili deformazioni che degradano Dio e l’uomo. Il nostro secondo compito, più difficile, è quello di dare alla nostra chiesa il volto che deve avere, quello che Dio le ha assegnato: il volto di un popolo cristiano onesto, distaccato e generoso, purificato dai suoi peccati; un popolo unito e pacifico, lavoratore sincero e gioioso, che canta e prega, abitato dallo Spirito di Dio; un popolo in cui l’amore è sovrano e le cui mani sono ricolme di opere di giustizia.

Venga il tuo Regno

Gesù ha detto esplicitamente: "Il mio regno non è di questo mondo... il mio regno non è di quaggiù" (Gv 18,36). Il regno quindi è escatologico: è lo stato definitivo del mondo quando il granello di senape, la chiesa, avrà raggiunto la sua statura e la sua maturità piena (Mt 13,31-32); quando il Padre sarà riconosciuto da tutti, quando il Figlio sarà il Signore di tutti, e lo Spirito santo sarà la vita di tutti; insomma, quando la salvezza sarà completamente realizzata, la mietitura portata a termine (Mt 13,30) e la sala del banchetto riempita di commensali (Lc 14,23).

La chiesa, pertanto, non è ancora il regno perché troppi sono ancora i posti vuoti, troppi i peccati. Ma nella chiesa il regno è in cammino, perché esso comincia da questo mondo, nei cuori, nella vita, nelle comunità di coloro che la fede e il battesimo ha "illuminati". È proprio a costoro che si rivolge l’apostolo Paolo quando scrive: "Ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati" (Col 1,12-14).

Questo regno dell’amore non "viene" come una stagione o un avvenimento gratuito, ma come una persona. Il suo procedere è sempre una iniziativa di Dio. Ma Gesù dice: "Chiedetelo!". Chiedete che il regno, annunciato e inaugurato da Gesù, si dilati, entri più profondamente nei cuori, si manifesti con convincente chiarezza nel comportamento dei cristiani. Sotto altre parole, quindi, abbiamo la stessa insistenza della richiesta precedente: "Sia santificato il tuo nome". Il regno di Dio non è un movimento politico e non è monopolio di nessuno. Al contrario, il vangelo è lo specchio in cui tutti i movimenti cristiani devono confrontarsi con Gesù Cristo per mantenersi in tensione e in conversione permanente. Tutto questo, però, non deve giustificare l’assenteismo e il disimpegno. Chi non si bagna nel politico non si bagna nemmeno nel regno di Dio, perché Gesù non ha solo pregato, ma ha fatto il bene e ha combattuto il male e l’oppressione in tutte le sue forme. Quindi la nostra preghiera al Padre non deve essere una semplice manifestazione di pii desideri e di buone intenzioni, ma l’offerta concreta di collaborazione per l’avvento del suo regno.

Le nostre preghiere, purtroppo, qualche volta, rischiano di distaccarci dall’azione responsabile personale e comunitaria perché sono legate a bisogni che non superano il contesto domestico. Qualche cristiano è un accanito divoratore di novene, un grande organizzatore di pellegrinaggi, un ricercatore dal fiuto finissimo di apparizioni e di devozioni inedite, ma non si occupa di niente e di nessuno. Un certo numero di devoti non si appassiona per l’avvento del regno di Dio, ma soffre di una fame insaziabile e morbosa di sensazioni sacre. Colui che prega: "Venga il tuo regno" non può essere un egoista alla ricerca di se stesso, ma deve diventare l’intercessore di questo povero mondo, di tutti, buoni e cattivi, perché la preghiera è la leva fondamentale per innalzare il mondo a Dio.

Sia fatta la tua volontà

Questa domanda, come la preghiera di Gesù nel Getsemani, non è una preghiera di rassegnazione, ma un appello a Dio perché compia liberamente la sua volontà, che è la migliore di tutte: il Padre infatti vede (Mt 6,6), sa (Mt 6,8) e ci ama (Gv 16,27). La sua volontà è l’espressione della sua sapienza e del suo amore infinito. Il Padre è solo amore e tutto amore, e non può volere altro che amarci. Noi, invece, siamo egoisti, chiusi e impazienti; non sappiamo bene che cosa vogliamo realmente, siamo peccatori, continuamente attirati verso scelte di peccato anche quando preghiamo, se chiediamo secondo la nostra volontà. Alla fine dei nostri sentieri capricciosi, constatiamo di essere infelici e nudi come Adamo ed Eva.

Cristo, in agonia, ha pregato: "Padre mio... sia fatta la tua volontà" (Mt 26,42). Tutta la sua vita si racchiude in questo "sì" incondizionato: "Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 6,38). La preghiera è un atto forte, non un gioco: è lo sforzo per avvicinarsi sempre più alla volontà di Dio, perché diventi totalmente nostra. L’alpinista aggrappato a uno spuntone di roccia tira forse perché la roccia venga a lui? Mai più. Precipiterebbe nel baratro. La roccia, fortunatamente, non si sfalda e l’alpinista fa assoluto affidamento su quella solidità per prendere slancio e tirarsi su fino ad essa. Il cristiano che prega non tenta di piegare Dio alla propria volontà, ma solleva verso Dio la sua anima pesante.

Come in cielo così in terra

Evidentemente i cieli presentati come termine di paragone non sono solamente quelli visibili, ma soprattutto quelli invisibili, gli angeli e i santi che compiono perfettamente la volontà di Dio. Noi desideriamo e chiediamo che Dio sia glorificato dalla libera adorazione dei suoi figli in terra, come è glorificato dall’evoluzione meravigliosa del sole, della luna e delle stelle e ancor più dalla lode armoniosa e perenne dell’assemblea dei santi.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

La prima parte del Padre nostro è tutta incentrata sul Padre: è la ricerca del regno di Dio e della sua giustizia (Mt 6,33). È questo il nostro primo desiderio e il nostro maggior bisogno. La seconda parte rimane ancora a livello di Dio perché è la preghiera dei suoi figli poveri e angosciati che portano dentro di sé la preoccupazione per i loro fratelli, nessuno escluso. Il pane quotidiano è tutto quanto è necessario all’uomo per essere uomo nel senso più pieno della parola. L’uomo non vive di solo pane materiale (Dt 8,3). Gesù, nel vangelo secondo Giovanni, ci dà il significato totale di questa domanda, quando dice: "‘Mio Padre vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo!’. Allora gli dissero: ‘Signore, dacci sempre questo pane!’. Gesù rispose: ‘Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete’" (Gv 6,32-35). Ma queste grandi realtà (la parola di Dio e l’eucaristia) non mettono in ombra la richiesta fiduciosa dell’umile pane della nostra tavola. Il pane quotidiano è un dono di Dio ai suoi figli perché arrivino fino a domani e, giorno dopo giorno, giungano all’appuntamento definitivo del banchetto eterno dove Cristo stesso si cingerà le vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli (Lc 12,37).

Che cosa significa "quotidiano"? L’aggettivo greco originale non è usato in nessun altro luogo del Nuovo Testamento e neppure nella letteratura greca profana. Se la traduzione esatta del termine epiousios resta incerta, è comunque chiaro che questa domanda non racchiude una esigenza di sicurezza per il futuro. Gesù invita i suoi discepoli a chiedere, giorno dopo giorno, il cibo di cui hanno bisogno, con la certezza che Dio vi provvederà ogni giorno, come aveva nutrito Israele nel deserto con la manna raccolta giorno dopo giorno (Es 16,4).

Scrive François Varillon: "Il Padre si occupa di te. Se lo chiami Padre, devi avere fiducia in lui. Se non ne hai, smetti di chiamarlo Padre". Il Padre nostro è, quindi, la preghiera del povero di fatto, che non vuole inquietarsi per il domani, e volge lo sguardo fiducioso verso le mani del Padre. È la preghiera del povero volontario che non accumula perché pensa fiduciosamente che la sua ricchezza e il suo domani sono il Padre. È la preghiera del lavoratore che non dimentica di dovere la forza delle sue braccia al Padre, e guadagna il pane con il sudore della fronte. È la preghiera del fratello che ha paura di accaparrare due porzioni, mentre altri suoi fratelli non hanno niente. È la preghiera onesta di chi non può domandare in verità che gli altri abbiano il pane, se non fa lui stesso quanto può per procurarlo loro. È la preghiera di chi crede fermamente che Dio è Padre di tutti e, di conseguenza, che tutti sono suoi fratelli in Cristo; di chi sa che solo chiedendo per tutti otterrà per sé e per i suoi. Il vangelo, anche in questa espressione "Dacci oggi il nostro pane quotidiano", che può sembrare tanto accondiscendente ai nostri appetiti e al nostro egoismo, è terribile: non ci dà un momento di tregua, non ci lascia dormire sonni tranquilli.

E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

La parola "debito" ha un significato molto ampio e include tutto quanto dovevamo fare e non abbiamo fatto. È più dell’offesa perché include i peccati di omissione; è più del debito, del torto e del peccato: è la smisurata distanza che separa la nostra povera vita reale dalla santità alla quale siamo chiamati come figli di Dio: "Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48). Siamo "nati da Dio" (Gv 1,13) e siamo "partecipi della natura divina" (2Pt 1,4): quindi dobbiamo vivere come Gesù Cristo. È questo il nostro "dovuto", il nostro "debito". Se le cose stanno così, allora è facile comprendere che siamo più insolventi del debitore della parabola, che doveva al suo re diecimila talenti (Mt 18,23-25).

Il nostro debito è praticamente infinito. E Dio sa meglio di noi che non potremo mai pagare. Ma Dio, che è nostro Padre, non ci chiede un regolamento di conti (i regolamenti di conti sono cose che fanno i malviventi!). Di più, tra Dio e noi non ci saranno nemmeno dei conti, perché un padre non tira mai le somme e, soprattutto, perché presso Dio non ha corso la giustizia umana. Il nostro Dio è il Padre tutto amore e misericordia. Egli "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3,16-17). Il Padre rifiuta il livello della giustizia umana se noi viviamo al livello delle leggi della famiglia divina. Ma se vogliamo risolvere i torti e le ragioni sul terreno della giustizia umana, rifiutando di considerare gli altri come fratelli, noi rifiutiamo di riconoscere Dio come Padre nostro e Dio misurerà a noi con la stessa misura con cui misuriamo agli altri, come sta scritto nel vangelo secondo Matteo: "Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe" (Mt 6,14-15). È questo il solo commento che Gesù aggiunge al Padre nostro, perché sa che su questo punto abbiamo la testa dura, l’orecchio ancora più duro e il cuore durissimo.

Gesù ci insegna: "Se presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" (Mt 5,23-24). Intendiamoci, Dio per primo ha perdonato e lo ha dimostrato coi fatti. È scritto nella Lettera ai Romani: "Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,8). Nonostante i nostri sbandamenti e i nostri debiti, il Padre ci tratta come figli amatissimi. Ma pretende, e giustamente, che noi lo imitiamo nel perdono e nella misericordia sempre e verso tutti. Diversamente, sarà lui a imitare noi. Se noi non perdoniamo, lui non perdona; se perdoniamo poco o nulla, lui perdona poco o nulla. E non diciamo che Dio cambia le carte in tavola. Glielo abbiamo chiesto noi, lo abbiamo pregato e scongiurato noi di comportarsi così: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori".

E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male (dal maligno)

La Bibbia, dalle prime pagine della Genesi fino alle ultime dell’Apocalisse, ci presenta l’uomo in balìa della tentazione, dilaniato fra il bene e il male, fra Dio e satana.
Gesù stesso, Figlio di Dio fatto uomo, fu ripetutamente (sarebbe meglio dire continuamente) tentato da satana. Appena fu battezzato "Gesù fu portato dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo" (Mt 4,1). "Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato" (Lc 4,13). Il tempo fissato è quello dell’agonia e della passione. Solo con la sua risurrezione Cristo inaugura la disfatta di satana. Tuttavia satana, come bestia ferita a morte, sa ancora terribilmente colpire. Leggiamo nel libro del l’Apocalisse: "Guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è precipitato sopra di voi, pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo" (Ap 12,12).

La tentazione al male non può mai venire da Dio, che è buono e vuole solo il bene. Scrive san Giacomo: "Nessuno quando è tentato dica: ‘Sono tentato da Dio", perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce’" (Gc 1,13-14). L’apostolo Paolo ci insegna: "La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda" (Gal 5,17). E satana, il tentatore, accende e alimenta il fuoco divorante della concupiscenza. Gesù ha riportato vittoria su satana e ha dato anche a noi questo potere. Leggiamo nel vangelo secondo Luca: "Vi ho dato il potere di camminare... sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare" (Lc 10,19). Quali sono le armi per vincere questa lotta? Quelle stesse usate da Gesù!

Per Gesù la prima arma fu la parola di Dio. A ciascuna delle tre grandi tentazioni da lui subite (Mt 4) lo sentiamo rispondere con la Bibbia: "Sta scritto". La prima arma per vincere Satana è la Bibbia ascoltata, letta assiduamente e meditata ogni giorno. San Paolo ci esorta: "Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo... Prendete la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio" (Ef 6,11-17).

La seconda arma è la preghiera. Nel Getsemani, "inginocchiatosi, Gesù pregava... Poi andò dai discepoli e disse loro: ‘Perché dormite? Alzatevi e pregate per non entrare in tentazione’" (Lc 22,41-46). Per questo il Signore ci fa terminare il Padre nostro con l’invocazione: "Non permettere che siamo vinti dalla tentazione, ma liberaci dal maligno". Leggiamo nella prima Lettera di san Paolo ai Corinti: "Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza di sopportarla" (1Cor 10,12-13). Quando preghiamo: "Liberaci dal male (o dal maligno)" dobbiamo renderci conto a quale male andiamo incontro quando ci imbattiamo in satana. Anche quest’ultima invocazione del Padre nostro è seria e grave: chiediamo al Padre di essere liberati dal potere delle tenebre, dalla dannazione, dalla morte eterna. Tutti, prima o poi, avremo il nostro Getsemani, la nostra parte di tentazioni e di pericoli mortali. La vita è una guerra continua e per salvarci dobbiamo combattere e vincere. Noi siamo tanto deboli e i nemici sono molti e assai forti. Ma attraverso la preghiera il Signore ci darà la forza che noi non abbiamo.

S. Agostino dice che tutta la scienza di un cristiano consiste nel conoscere che egli è niente e non può niente. Così non cesserà di procurarsi da Dio, con la preghiera, quella forza che non ha e che gli è necessaria per resistere alle tentazioni e per fare il bene; e allora farà tutto con il soccorso di quel Signore che non sa negare nulla a chi lo prega con umiltà, perché è Padre, il Padre nostro, Dio.

Amen

È un'acclamazione ebraica intraducibile che, dalla Bibbia, fin dai primi tempi, passò nella Liturgia cristiana.

Arriva dalla radice àman, ed esprime: sicurezza e verità. Per questo, Dio è chiamato l'Amen, e Gesù è detto l'Amen per­ché «è il testimone della verità».

Amen è anche il termine col quale esprimiamo l'assenso a ciò che altri fanno o dicono a nome di tutti, specie in un contesto liturgico.

Amen: così è!